INTRODUZIONE
S. Freud, durante la sua celebre carriera di psicoanalista, concentrò la propria tecnica terapeutica sull'assunto che il principale bisogno, tanto dell'infante quanto dell'adulto, fosse quello di sfogare le proprie pulsioni perseguendo i propri desideri; pertanto, quello che noi chiamiamo affetto o amore altro non sarebbe che un "effetto collaterale" a cascata di questi preupposti. L'amore stesso del bambino per la propria madre nascerebbe dal fatto che egli si lega primariamente al suo seno, quale fonte di cibo necessario per la propria sopravvivenza. Queste teorie portano come già accennato Freud a concentrarsi sulle fantasie e meno sulla realtà, abbandonando ad esempio la teoria della seduzione e privilegiando quella del complesso di Edipo, quale causa eziopatogenetica in senso lato.
Negli anni '60 Bowlby, ispirato dagli esperimenti in aria etologica di Lorenz e di Harlow (si rimanda alla bibliografia per eventuali approfondimenti) sconfermerà implicitamente alcuni dei cardini della metapsicologia, sia a livello empirico che teorico, dando alla luce quella che oggi chiamiamo Teoria dell'Attaccamento.
LA TEORIA DELL'ATTACCAMENTO
L’attaccamento può essere definito come un insieme complesso di comportamenti che appartengono alla natura umana e animale e contribuiscono allo strutturarsi della relazione primaria fra un bambino e un adulto. Il fondatore della teoria dell’attaccamento è John Bowlby e Attacchment and Loss (1969,1973,1980) è il suo più celebre contributo in cui sono raccolte in modo sistematico le teorizzazioni inerenti la diade caregiver-bambino e gli effetti delle cure materne sullo sviluppo futuro dell’individuo.
Le prime intuizioni di Bowlby si rintracciano nel corso di un’esperienza lavorativa in una scuola per ragazzi disadattati, è in quel contesto che il ricercatore Britannico inizia ad ipotizzare una possibile relazione tra deprivazione di cure materne in età infantile e conseguente incapacità di creare legami affettivi.
LE FUNZIONI DEL SISTEMA DI ATTACCAMENTO
Bowlby riteneva che l’esigenza nell’uomo di costruire profondi legami affettivi fosse il bisogno umano universale. All’inizio della sua teorizzazione, la funzione cardine attribuita al sistema di attaccamento consisteva nel garantire al bambino protezione dai potenziali pericoli del mondo esterno. Tuttavia, la funzione del sistema di attaccamento non si esaurisce nel fornire al bambino protezione fisica dai pericoli.
I comportamenti di attaccamento agiti dal bambino come ad es. la ricerca, la vicinanza, l’aggrapparsi, il sorriso, la vicinanza, si rispecchiano e si rinforzano in modo sinergico attraverso i comportamenti dell’adulto, come ad es. calmare e tenere in braccio il bambino e toccandolo delicatamente. Sono, per così dire, complementari.
È necessario chiedersi: quando precisamente il bambino attiva comportamenti di attaccamento?
Nei primissimi mesi di vita il bambino è intrappolato in quella condizione che è definita “equivalenza psichica” – il neonato infatti non è in grado di distinguere tra mondo interno e mondo esterno e l’unico strumento che ha a disposizione è il rispecchiamento affettivo della madre. Di fatto, attraverso le espressioni del volto materno (sorrisi, espressioni di tristezza o gioia, ecc) il bambino impara a conoscere le proprie emozioni e nel tempo a consolidare la sua esperienza emotiva. Il bambino quindi mette in atto comportamenti di attaccamento nel momento in cui percepisce che qualcosa nel suo ambiente lo fa sentire insicuro (questo “qualcosa” può anche essere rappresentato dalla stessa madre, o meglio, dalla sua incapacità a rispondere prontamente al grido di aiuto del bambino). L’obiettivo dunque del sistema di attaccamento consiste nel creare le condizioni per sperimentare un’esperienza di sicurezza e la funzione che il legame di attaccamento veicola va ben oltre il fornire protezione fisica, piuttosto ciò che emerge è la straordinaria capacità del sistema di attaccamento di regolare le esperienze emotive, generando specifiche rappresentazioni che guideranno l’adulto nelle future esperienze interpersonali.
Il sistema di attaccamento può quindi essere considerato un continuo scambio di segnali tra madre e bambino, un percorso all’interno del quale lo spazio vitale di entrambi è messo a dura prova e il cui obiettivo ultimo è recuperare l’omeostasi. Le esperienze emotive che il bambino gradualmente interiorizza come pattern di funzionamento stabili sono definiti da Bowlby “modelli operativi interni” (MOI – Internal Working Models). In altre parole, i MOI non sono altro che l’insieme delle risposte emotive che la madre è stata in grado di trasmettere al bambino nei momenti in cui quest’ultimo ne aveva più bisogno; ogni MOI contiene la rappresentazione preconscia che si ha di sé, quella dell’altro e quella di sé con l’altro. E’ chiaro che tali rappresentazioni siano emotive, cognitive e comportamentali. Suddette rappresentazioni interne (del bambino) riflettono dunque il registro emotivo del caregiver, strutturando gradualmente nel bambino un insieme complesso di aspettative circa le figure significative della sua vita. Ad es. se cerco aiuto ma non vengo ascoltato o assecondato probabilmente avrò – crescendo – delle aspettative (pregiudizi impliciti) verso gli altri, che considererò come poco disponibili, pertanto non mi sentirò sicuro nel chiedere aiuto nei momenti di bisogno. Bowlby, infatti, ipotizzò che i modelli operativi interni appresi durante l’infanzia, funzionassero da prototipo relazionale per tutte le relazioni successive, proprio come schemi cognitivi, influenzando i processi di elaborazione dell’esperienza per tutto l’arco della vita.
Si deve a Mary Ainsworth la verifica empirica dell’attaccamento attraverso la messa a punto di una procedura sperimentale, la Strange Situation, grazie alla quale sono stati individuati diversi tipi di attaccamento (sicuro, insicuro-ambivalente, insicuro-evitante e disorganizzato) in funzione di diversi tipi di accudimento e diverse risposte emotive (si rimanda a Ainsworth, Blehar e altri, 1978). In questa procedura il bambino veniva sottoposto a una serie di stress consistenti in episodi di separazione e riunione con la figura materna, in presenza di una figura estranea (di solito lo sperimentatore). A seconda dei comportamenti esibiti dal bambino in queste fasi – in particolare modo durante il ricongiungimento con la figura materna – è possibile classificare la categoria cui appartiene l’infante. Successivamente, è stata elaborata l’Adult Attachment Interview (AAI), cioè un colloquio semistrutturato che permette di valutare i profili di attaccamento in età adulta.
ATTACCAMENTO E INTERSOGGETTIVITA’
“Quando penso a un neonato mi viene in mente una minestra. Una minestra di desideri, affetti, pensieri, movimenti delle persone che lo circondano. Sarà l’ambiente a dargli quegli elementi per la costruzione di sé”(Saggio di D.Stern in “Legami che creano, legami che curano” di Luigi Onnis, 2010).
L’intersoggettività di cui parla Stern è intesa come la condivisione di esperienza tra due persone. Tale peculiarità umana ha trovato conferma anche nelle neuroscienze con la scoperta dei neuroni specchio, constatando come tali neuroni si attiverebbero non soltanto quando compiamo direttamente un’azione ma anche quando osserviamo qualcun altro compierla al posto nostro. La capacità di rispecchiamento di tali neuroni implicherebbe non solo la sfera motoria e percettiva ma anche quella emozionale determinando importanti implicazioni per la dimensione dell’empatia.
La relazione tra attaccamento e intersoggettività è stata affrontata da posizioni teoriche distinte e in particolare da due autorevoli studiosi: 1) Karlen Lyons-Ruth e 2) Daniel Stern.
1) K. Lyons Ruth riconosce nell’intersoggettività una funzione essenziale della mente, una condizione imprescindibile dell’uomo alla pari del bisogno di respirare. In quest’ ottica, l’intersoggettività non può essere considerata un sistema motivazionale attivabile o disattivabile in base alle circostanze esterne, piuttosto è intesa come una condizione intrinseca all’esistenza umana che vede l’uomo costantemente impegnato, spesso inconsciamente, nello stare in relazione.
2) Contrariamente alla visione di Lyons Ruth, Stern considera l’intersoggettività un sistema motivazionale di base con un ruolo cruciale nella sopravvivenza della specie. Perche? Se ci pensate, le nostre abitudini sono colme di intersoggettività, ognuno di noi è impegnato continuamente nel proprio contesto sociale a capire cosa sta avvenendo tra noi e l’altro, a inquadrare la situazione e anche ad anticipare le mosse dell’altro. Quando quest’operazione ci è impedita per svariate ragioni, ci si sente isolati e viene meno il senso di appartenenza al gruppo.
Concludendo, la teoria dell’attaccamento di John Bowlby può essere considerata una teoria trasversale in quanto è stata in grado di influenzare i diversi approcci psicoterapeutici, abbracciando tutta la complessità dell’essere umano quale essere intrinsecamente intersoggettivo e, al contempo, superando i limiti e la rigidità propria degli echi epistemologici di stampo più riduzionista.
dott.ssa Alessandra Zimmari e dott. M. Verdesca
BIBLIOGRAFIA consigliata:
> Bowlby, J. (1989). Una base sicura. Cortina, Milano.
>Midgley, N., & Vrouva, I. (2014). La mentalizzazione nel ciclo di vita. Interventi con bambini, enitori e insegnanti, traduzione di A. MARCHETTI, Raffaello Cortina, Milano.
> Onnis, L. (Ed.). (2010). Legami che creano, legami che curano: attaccamento, una teoria ponte per le psicoterapie. Bollati Boringhieri.
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