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Immagine del redattoreDott. Maurilio Verdesca

SE IL GIOCO VALE LA CANDELA.

Aggiornamento: 6 feb 2020


“La vita è un gioco la cui prima regola è: essa non è un gioco, è una cosa molto seria.” (Alan Watts)

• Come già ribadito in uno dei nostri post le cure materne e l’amore materno sono per l’infante letteralmente un nutrimento vitale, al pari di quello che trae dal cibo che gli è fornito. Ad affermarlo è Bowlby ma già prima di lui R. Spitz condusse degli esperimenti che lo evidenziarono in maniera a dir poco inequivocabile. Il bambino “ che non avesse trovato casa nel cuore di un altro, si sarebbe spento, si sarebbe lasciato morire” (Armiento, 2018 [5]).

Sulla scorta di queste evidenze vi fu anche Harlow che , a partire dall’etologia, dimostrò come il “cibo emotivo” (sia esso fatto di carezze, abbracci e tutti quei comportamenti che filogeneticamente la gran parte degli infanti ricercano nel caregiver) risulta essere un bisogno primario, primitivo, non subordinato ad altro. L’intento di questa breve rassegna teorica non è certamente entrarne in merito e, anzi, data la rivoluzionaria portata teorica che introdussero le ricerche di cui sopra si invita vivamente il lettore ad approfondirle in altra sede - una breve ricerca su Google vi basterà e vi avanzerà. ___________________________

L’intento di chi scrive è quello, semmai, di sintonizzarsi con Eric Berne [1], (1964), il quale scrisse che gli umani presentano una innata “fame di stimolo” [2], essa più che mai si veicola nelle transazioni ossia nelle relazioni umane prima sottoforma di “fame di carezze” e poi, via via, in fame di “intimo riconoscimento”. D’Amore. Berne, in effetti fonda la propria terapia psicologica sulle analisi transazionali, di cui a breve faremo cenno.

Intanto, concetto cardine da tenere a mente è che gli umani nel tentativo di difendere lo svelamento della propria intimità psichica, timorosi di mostrarsi fragili e vulnerabili in tali frangenti, mettono in atto tutta una serie di competenze apprese durante la propria infanzia, che alla fine finiscono esse stesse per essere confuse o scambiate per amore.

L’intimità è il livello massimo della vicinanza emotiva, ma è anche il più rischioso, perché rischia di ferirci e di ferire più di tutti gli altri. Perciò lo riserviamo a pochi, e preferiamo rifugiarci nei giochi.” [3]



Praticare queste strategie inconsce, metterle in pratica, vuol dire essere nel bel mezzo di quelle che Berne chiama “transazioni” alla cui vetta, in pratica, esiste una posta, un montepremi. Signori miei… quanto detto vi ricorda per caso qualsivoglia forma di gioco? Non è forse il gioco una attività in cui le soggettività sono organizzate secondo turni e regole (la cui possibilità di infrangerle è ancora in funzione di una regola) con l’obiettivo finale di vincere? Tale per cui, difatti, il gioco varrebbe o meno la candela.

Bene, in effetti Berne considera molte delle relazioni umane dei veri e propri giochi - e le definisce tali non certo per sminuirle. Sono definite giochi non perché le emozioni che in essi s’animano siano false, spurie o divertenti, ma perché le emozioni rispondo a determinate regole che seppur poste sulle sfondo definiscono le nostre mosse positive o negative se rapportate ad esse. Ciò che nel costruttivismo, insomma, è definito sistema di riferimento.

"Il concetto di gioco non ha per i matematici alcun significato ludico, infantile. Si tratta invece per loro di uno spazio concettuale con delle regole molto precise, che stabiliscono la migliore condotta di gioco possibile" [6].

Il calcio, ad esempio, la politica e la guerra non sono forse dei giochi presi molto seriamente? Per l’appunto, non sono affatto spensierati o divertenti, tuttavia, per essi si incrinano rapporti, in men che non si dica, in nome di queste dinamiche ludiche, si instaurano amici e nemici - per esse addirittura si può vivere o morire (si vedano a tal proposito gli esperimenti di psicologia sociale di Tajfel o la Stanford Prison di Zimbardo). Tuttavia, nessuno mai sospetterebbe di essere un giocatore - a volte, per la precisione, un giocatore d’azzardo.

E se vi dicessi che anche nel litigio e nei flirt si sta giocando? Nelle transazioni che ci rendono a volte salvatori, altre vittime. E se quando giocate a ingaggiare l’altro nei vostri dispetti, nei vostri complimenti o nei vostri consigli state giocando in realtà le vostre carte migliori, i vostri assi? Ognuno tenta di giocare ricreando uno scenario all’interno del quale le proprie regole siano invisibili ma stabili, valide, affinché in ultimo, tramite esse, si ottenga la posta promessa: delle carezze. Sono esse la posta in gioco, un nodo di manovre complesse mirate ad ottenere fame di stimoli, di emozioni e sicurezza (psicologica o organica).

Durante l’infanzia il genitore “stabilisce una serie di regole che controllano il dare e ricevere carezze" (ibidem).

L’effetto di queste regole è che gli esseri umani apprendono delle regole per dare e ricevere carezze. Le carezze positive: ti voglio bene, ti sento, danno a chi le riceve la sensazione di essere ok.

Le carezze negative, che sono date sotto forma di umiliazioni, schiaffi, sarcasmi fanno sentire la persona che li riceve non ok. ”[4]

Si comprende bene come tutti questi giochi si mettono in atto in buona fede, almeno dal punto di vista proprio del giocatore. Molte volte, nelle coppie divengono giochi complementari che governano il rapporto fino al momento in cui la posta in gioco effettivamente è ricca di significato, è in grado di conferire senso, valore.

Tuttavia, come ogni gioco, i rapporti basati unicamente su queste dinamiche avranno un vinto e un vincitore, un inizio e una fine - quelli che vengono definiti “giochi a somma zero”.

In questo senso è possibile dire che l’infanzia del bambino è l’epoca in cui vengono appresi dei giochi, il bambino li sceglie e impara a giocare e/o ad eccellere in essi. Questi schemi insomma, mirati ad ottenere carezze, saranno i preliminari del proprio destino.

“Una volta che sono diventati schemi fissi di stimolo e reazione, le loro origini si perdono nella notte dei tempi mentre la loro natura ulteriore è oscurata dalle nebbie sociali” (Berne, 1964)

In conclusione, esistono giochi costruttivi e distruttivi - per essi è possibile spingersi lontano senza essere realmente sé stessi. Giocare a un gioco - permettetemi il gioco di parole :) - vuol dire essere immersi in una realtà psicologica, nella quale si recita un copione totalizzante, in cui l’io si assesta attorno a uno stato ben definito. Smascherarli vuol dire allargare le proprie consapevolezze, essere maggiormente padroni, genuini, creativi nel rispetto di sé e dell’altro; non assolvendo, così, in maniera perentoria a delle regole pre-scritte solo per una questione inerzia. Insomma, si può smettere di giocare o continuare a farlo felicemente ma, in ogni caso, tale scelta se analizzata sarà arricchita della propria libertà. del proprio deliberato consenso.

Più che mai mi torna ora un titolo di un brano che probabilmente nemmeno ho mai compreso pienamente prima di scrivere queste righe: “Vince chi molla” di Niccolo Fabì. Per vincere si deve smettere di giocare al proprio gioco e di identificarsi nei propri limiti, per vincere si deve mollare, per vincere si deve vivere.

E TU… a che gioco stai giocando? ~ dott. M. Verdesca Segui cliccando qui>>> Psicoanalitica_MENTE <<< su FB

 

Note e bibliografia:

[1] Games People Play, E. Berne.

[2] La privazione emotiva e sensoriale pertanto porteranno - per mezzo di secondarie catene complesse - a modifiche degenerative e potenzialmente fatali a lungo termine. Quanto detto aprirebbe implicazioni interessanti sul concetto di psicosomatica, spesso abusato oggi quale panacea e origine delle più svariate sventure umane, tuttavia, essa col tempo sta rivelando come sia sottile e ancora ignoto il confine tra psiche e soma.




[5] Ti penso positivo, M. Armiento. [6] Istruzioni per rendersi infelici, Watzlawick ______________________________

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