Questa riflessione trae spunto dal libro “The contexts of being” (Atwood & Storolow, 2014), un libro che origina da una precisa premessa: “l’esperienza affettiva è sempre regolata e costituita all’interno di un contesto intersoggettivo (p.23)”. La visione degli autori è tesa a indebolire il paradigma psicoanalitico classico positivista di stampo solipsistico, secondo il quale la mente sarebbe una monade, per definizione isolata nell’oblio dei propri processi intrapsichici. In questa ottica non sarebbero più i desideri libidici - derivati del modello pulsionale - a tessere le trame, le vicende e le sfumature della vita psichica del soggetto, bensì, sarebbero i tentativi del soggetto di mettere in atto quella serie di mosse (strategie) tese a ricreare gli scenari o gli schemi relazionali tipici della propria infanzia; tale concetto viaggia molto vicino a quello di ‘identificazione proiettiva’ nell’accezione di Ogden (1994): il soggetto cercherebbe di rendere l’analista - tramite una serie di operazioni inconsce - assimilabile alle proprie figure significative, in modo tale da rimettere in moto copioni, al soggetto stesso, già noti, in grado di metterlo nella condizione di poter impersonare all’infinito sempre lo stesso personaggio, sempre la stessa parte all’interno del proprio dramma. Potremmo dire, in altri termini, che ognuno di noi è, di default, settato (e in parte condannato) a rivivere nel proprio habitat mentale o a restare nella propria comfort zone e, ciò, spiega abbastanza chiaramente perché ci riesca tanto facile resistere al cambiamento. È più facile, di gran lunga, restare sé stessi: cambiare costa in termini di impegno, sforzo ed equilibrio.
Una domanda, infatti, risulta immediata: da cosa sono determinati perimetro, volume e contenuto di questo habitat? A cosa sono dovuti questi confini? Essi sono il risultato delle esperienze interattive infantili. Infatti, le emozioni dell’infante che vengono convalidate dal caregiver saranno integrate entro – o meglio, andranno a costituire - questi confini, in caso contrario resteranno escluse.
Per chiarire meglio questa dinamica possiamo rifarci a quella che definirei “metafora della radio”.
Ognuno di noi è come se nell’infanzia fosse una radio impegnata a costruire il proprio repertorio di frequenze su cui sintonizzarsi, ogni emozione captata dalla radio-genitore, diviene a sua volta una stazione da aggiungere alla propria gamma di frequenze raggiungibili.
La nostra vita emotiva in questi termini è simile al processo che attuiamo quando passiamo in rassegna le stazioni della nostra autoradio: siamo in grado di escludere velocemente le stazioni che trasmettono brani a noi poco noti e di soffermarci, e cioè sintonizzarci invece, su quelle familiari. Questo meccanismo è così implicito e automatico da sfuggire al nostro controllo.
Tali momenti, di incontro emozionale congiunto, divengono dei principi regolatori a cui diveniamo sensibili; il processo che li sorregge, alla base, non è per nulla diverso nella natura da quello che governa l’apprendimento della lingua. Alla nascita, infatti, il bambino è potenzialmente in grado di apprendere qualunque lingua; dunque, l’infante - volendo semplificare - produce, quasi a tentoni, dei vocalizzi. Solo quelli verso cui il genitore si dimostra sensibile e ricettivo verranno selezionati e diverranno ‘i preferiti’, degni di attenzione. A partire da essi, previa convalida appunto del genitore, il bambino inizierà a selezionare e discriminare: la musica dal rumore, o più in generale, il significato dal caso, la figura dallo sfondo. Si orienterà insomma verso la lingua madre (che fungerà da contesto di senso), interiorizzandone i principi generali che ne governano l’uso.
Stiamo parlando dunque di processi di convalida emotivi, essi traggono origini da dimensioni sensomotorie molto precoci che Stern definirebbe Forme Vitali (raccomando la mia recensione del suo libro per approfondire) e che, via via, acquistano forma simbolica con lo strutturarsi del linguaggio.
La capacità del terapeuta (similmente a quella del genitore) non è dunque solo quella di interpretare, quanto invece, quella di sintonizzarsi verso l’esperienza dell’Altro, risuonando all’unisono in essa. Il paziente, per cambiare, insomma non ha bisogno di interpretazioni ma di esperienze (N. Mc Williams, 2012).
Le esperienze congiunte, di sintonizzazione, sono percepite come degli incontri intimi, in cui non si è soli (Carli & Rodini, 2008) - tanto in terapia quanto nella vita. Queste premesse, a mio parere, ribaltano concetti più specifici quali quello di setting, di transfert e controtransfert.
Dott. Maurilio Verdesca
FB Page: Psicoanalitica_Mente
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Bibliografia
Atwood, G. E., & Stolorow, R. D. (2014). Contexts of being: The intersubjective foundations of psychological life. Routledge.
Carli, L., & Rodini, C. (2008). Le forme di intersoggettività. L'implicito e l'esplicito nelle relazioni interpersonali. Raffaello Cortina.
Ogden, T. H. (1994). L'identificazione proiettiva e la tecnica psicoterapeutica. Astrolabio.
McWilliams, N., Schimmenti, A., & Caretti, V. (2012). La diagnosi psicoanalitica. Astrolabio.
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